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  >  blog   >  Quello che le mamme non dicono, ma tutte sanno
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Qualche giorno fa mi è capitato di confidarmi con un’amica che, ingenuamente (perché non ha figli) mi ha chiesto: “Ma essere mamme è come si vede in televisione? Cioè, a volte ti vengono gli esaurimenti nervosi?” Lì, per lì mi è scappato da ridere, le ho sorriso bonariamente, come si sorride a uno che non sa proprio di cosa sta parlando… e poi ho detto “eh, avoja!“.
Sarà l’estate, sarà che stiamo mettendo su casa, anzi comprando e ristrutturando la prima casa, sarà che sto lavorando tantissimo, sarà che Giulio non ha ancora iniziato il nido, ma: come diamine si fa a non avere la testa piena di mille cose?
Lo scorso anno mi ero ripromessa di scrivere una marea di post che non ho mai scritto. Post su come ottenere la maternità anche con una partita iva con regime dei minimi a gestione separata, ad esempio, come farlo in modo indipendente, quindi senza affidarsi a nessun patronato. Mi ero ripromessa di scrivere post che potessero aiutare le mamme incinta che spesso non vengono aiutate proprio da nessuno. Perché? Perché io mi ci sono trovata in prima persona, a cercare informazioni sul sito dell’Inps, a cercare informazioni in rete, ma le leggi cambiano così velocemente che quello che vale per l’anno precedente non vale per questo.
Guardo mia mamma fare tutto e mi chiedo, ma come cavolo ha fatto a fare tutto e come fa ancora adesso?
Sul serio. Due figli, un lavoro che con il tempo è diventato part time e l’aiuto che ancora mi da.

Noi tutte lo sappiamo anche se non vogliamo ammetterlo

Noi tutte lo sappiamo, questo non è un paese per donne, ma nemmeno per famiglie.
Fa notizia quando a una donna viene dato il part time, la maternità, le ore per l’allattamento e al suo ritorno al lavoro le vengono date le sue stesse mansioni. Fa notizia, ma non dovrebbe. Scoraggiarsi è facilissimo, perché prima di diventare mamma giuri che a te non capiterà mai. Tu manderai il tuo piccolo all’asilo a 6 mesi, così da poterti tenere il tuo lavoro, addirittura dici che lo lascerai lì dalle 8 di mattina alle 4 del pomeriggio, così da poterti continuare a dedicare al lavoro.
Scoraggiarsi è facilissimo e io stessa lo scorso anno, quando Giulio aveva solo pochi mesi, sono stata così tentata di rifiutare qualche lavoro perché era dura, era durissima. Era così dura che se solo avessi avuto un compagno meno determinato di quello che è, forse l’avrei fatto. Se solo fossi stata meno cocciuta di quello che sono, avrei rinunciato. E invece a 3 mesi a Roma, a 4 mesi a Milano, sempre con Giulio e i nonni, Giulio e il mio compagno, pronti ad alternarsi. Un lavoro quello che mi ha ripagata, forse non subito, ma che a distanza di mesi mi ha dato lo spirito giusto per andare avanti, la carica che mi lì per lì mi mancava e mi ha ridato il lavoro che avevo, perché non facciamo finta di niente, quando sei incinta o hai appena partorito (soprattutto quando sei freelance), sei quella che ha appena avuto un bambino o è incinta, “quindi adesso non la chiamiamo subito”.
Poi il figlio arriva, ed è un essere così indifeso e bisognoso di cure e di attenzioni, delle tue cure e delle tue attenzioni, che difficilmente lo lascerai al nido a 6 mesi per 8 ore al giorno, altrimenti pensi a cosa l’ho fatto a fare un bambino? Certo, ci sono mamme che devono e io sono solo una privilegiata, io che lavoro da casa, lo addormento e lo guardo dormire, che mangi con lui, faccio il bagno con lui, vado in bicicletta con lui. Non tutte le mamme hanno la mia fortuna, alcune devono lasciare il figlio al nido, per forza, perché non hanno un aiuto, perché oggigiorno se non si guadagna in due non si vive (decentemente). Che poi non è solo il fatto di vivere (bene), personalmente penso che se una donna ha un lavoro che le piace e la soddisfa, perché deve rinunciare alla propria soddisfazione solo per i figli? Non l’ho mai concepito e mai lo concepirò.
Il nostro Paese è incompatibile con la famiglia, è incompatibile con le pari opportunità, è incompatibile anche con il concetto di marito/padre che può/deve andare dal pediatra, andare dal dottore, andare all’asilo, come se ancora per tutti sia questo un lavoro relegato alle donne. E così il tempo passa, il lavoro sfuma, la carriera la fanno gli uomini, e le donne sono sempre più divise tra lavoro in ufficio e lavoro a casa, tra scartoffie e pentole, tra pannolini e computer.

Cedere è normale, cedere è nostro diritto

Quindi cosa succede quando non se ne può più? Quando la testa è talmente piena di pensieri che nemmeno a spingere con forza ce ne entrerebbe un altro dentro? Succede che ci dimentichiamo le cose. Io stessa perdo costantemente le chiavi dell’auto, oppure dimentico il portafoglio, spesso mi capita di non trovare lo smartphone, ecco perché ormai ce l’ho costantemente in mano.
Succede che abbiamo liste lunghissime di cose da fare e che assieme alla riunione con il cliente del martedì, abbiamo anche il pediatra, il mare, la spesa, il cous cous per la serata da preparare.
Cedere è più che normale e a me è capitato, questa estate poi mi capita spesso per via del fatto che di cose ne ho davvero un mucchio da fare, giornalmente, tanto che il mio calendario è talmente pieno che mi tocca mettere colori diversi per gli ambiti della mia vita: mamma, freelance, editore, progetti personali. Mi sono ritrovata in bagno a piangere da sola. Fatemi coraggio, ditemi che è successo anche a voi. Mi sono ritrovata arrabbiata e stressata perché le cose non vanno sempre come vogliamo noi, perché sono imprevedibili, come un bambino vivace che un minuto prima è seduto sul seggiolone, il minuto dopo si alza in piedi e rischia di cadere (successo due giorni fa con Giulio e a momenti non mi viene un infarto). Perché essere madre e anche lavoratrice fuori casa è un impegno così gravoso che a volte noi mamme non riusciamo a bilanciare, perché nessuno può davvero farlo bene, a meno che non abbia uno stuolo di tate e di aiuti, che costano, eccome se costano (capitolo a parte).

Quindi cosa ci resta per non soccombere?

Ci restano gli aiuti, delle persone che ci stanno vicino, ci resta la consapevolezza che non siamo le uniche, ci resta il pensiero che anche questo giorno alle 21 (se tutto va bene) finirà e ci resteranno quelle poche ore per dormire e riprendere fiato (e per qualcuna anche per lavorare). Ci resta l’amara consapevolezza che senza di noi non ci sarebbe vita, famiglia, futuro, che siamo le uniche che posso davvero reggere un carico così grande, (passatemelo, perché l’uomo non è lontanamente pronto a questo e nemmeno sa tutto quello a cui facciamo fronte ogni giorno).

Cosa dovremmo spiegare a chi ci guarda male?

Cosa dovremmo davvero spiegare a chi pensa di poterci lasciare lì, in un angolo in attesa che il figlio diventi maggiorenne, che il lavoro vada avanti senza di noi, che la ristrutturazione della casa finisca, il pediatra diventi dottore, il nostro corpo smetta di allattare e le nostre mani smettano di spingere su e giù una carrozzina che si agita?
Dovremmo spiegare che noi donne siamo molto meno di tutto questo. Che ci siamo ritrovate in questo ruolo e che ci siamo anche ben adattate, perché ci piace l’idea che nessuno possa fare a meno di noi, ma noi sappiamo essere anche molto meno e sappiamo farlo bene. Sappiamo anche noi fare una cosa alla volta, andare dal pediatra o ricevere una telefonata di lavoro, ma una cosa alla volta. Sappiamo anche noi spingere una carrozzina o guardare le mail del telefono, dar da mangiare a un bambino o pensare all’ultima riunione, alla bella idea creativa avuta, dormire bene, senza essere svegliate nel cuore della notte per tutti gli svariati motivi per cui un piccolo si sveglia.
Ovviamente quando dico “cosa dovremmo spiegare a…” non mi riferisco solo al marito/compagno/padre, che il più delle volte è forse l’unico a capire la nostra reale situazione. Dovremmo spiegarlo invece ai datori di lavoro, alle altre mamme, ai dottori, a chi ci guarda al supermercato dove mentre facciamo la fila alla cassa guardiamo le mail mentre il più delle volte i bambini giocano nel carrello con una passata di pomodoro. Dovremmo spiegarlo a chi ci guarda male mentre andiamo in bici e prendiamo una telefonata di lavoro, a chi ci osserva pensierose mentre cerchiamo di ricordarci che cosa volevamo fare da cena dato che il foglietto della spesa è rimasto sul tavolo, che si trova al terzo piano di una casa senza ascensore e dove sarà davvero dura tornare con un bimbo in braccio, la spesa nell’altra mano, avendo l’assoluta certezza di aver sbagliato ingredienti e che per cena si ordineranno delle pizze, anche questa volta.

Una conclusione che non ho

Mi piacerebbe finire questo post con una speranza, un pensiero bello che però non ho.
Una conclusione che non so dove cercare e non so nemmeno se vale la pena riportare, perché è inutile illudersi che qualcosa di bello stia per accadere quando quotidianamente le notizie che sentiamo sono tutto, tranne che rassicuranti.
Concluderò questo post così, in attesa che qualche bel cambiamento arrivi, così da farmi aggiungere e magari cambiare, sì diciamo proprio cancellare, questo post che tutto è tranne che positivo, che tutto è tranne che fantasioso, ma solo una reale fotografia della nostra Italia oggi.

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